venerdì 7 novembre 2014

Le personalità eccezionali: intervista a Filippo Bianchi

Nel corso della sua carriera giornalistica Filippo Bianchi ha trovato il tempo per dirigere Musica Jazz per una decina di anni, scrivere libri come il riuscito 101 Microlezioni di Jazz (22 Publishing, 2011) e deliziare gli appassionati con un giornalismo schietto, profondo e mai accomodante.

Qual è oggi, al tempo dell’informazione totale, il ruolo del critico musicale?

Ci sono casi, in natura, di processi evolutivi esagerati, per cui certi animali sviluppano arti enormi o code enormi o denti enormi o corna enormi, che finiscono per diventare ingombranti e paralizzanti. Un curioso fenomeno, che si chiama ipertelia, cioè eccesso di funzione. Uscendo dalla metafora naturalistica, è chiaro che viviamo una sorta di ipertelia della comunicazione: ci sono tante di quelle informazioni che finiscono per nascondersi una sotto l’altra; prese singolarmente sono trasparenti, ma la sovrapposizione dei loro strati crea un effetto di opacità. In un mercato sempre più ridondante di offerte, il ruolo del critico, dello specialista – che per mestiere deve gestire molte più informazioni di un ascoltatore qualunque – cresce di importanza, nell’individuare e indicare quelle opere che gli paiono originali, o particolarmente riuscite, o realmente innovative, o destinate a durare. Poi i suoi lettori valuteranno se, secondo la loro sensibilità, quel critico è un advisor affidabile o meno. Per il resto, il ruolo del critico è quello di sempre: riuscire a trasmettere le emozioni che un’opera gli ha suscitato; compito non facile, meno che mai dovendo tradurre la musica in parole, cioè mettendo in relazione due linguaggi fra loro intraducibili. Infatti spesso, piuttosto che assolvere missioni così ardue, ci si arrabatta a pontificare, o aggettivare con ridondanza, o indagare strutture.

La critica musicale italiana in ambito jazzistico, nel corso del tempo, in cosa ha peccato?

Mi perdonerai se mi autocito, ma quando ero direttore di Musica Jazz mi è capitato di scrivere quanto segue: «Se volessimo usare una metafora giudiziaria, potremmo dire che nella tradizione italiana il jazz ha avuto moltissimi giudici, parecchi avvocati difensori e pubblici ministeri, ma una certa penuria di testimoni. La critica jazz ha generato illustri musicologi e valenti polemisti, ma ricordo pochissimi critici di impostazione giornalistica, quelli che non hanno la pretesa di raccontare la storia con la esse maiuscola, bensì le storie quotidiane, vissute, magari banali ma umane, che poi diventano fonti, cioè nutrimento degli storici. E siccome la funzione giornalistica è – oltre che informativa – anche divulgativa e narrativa, forse anche a questa impostazione si può far risalire l’interesse tiepido che – paragonato a quello di altri Paesi europei – il pubblico italiano ha storicamente mostrato nei confronti di questa musica». Fra quelli che sono riusciti a raccontare in modo appassionante, e a connettere, l’arte e la vita dei suoi protagonisti mi vengono in mente A. B. Spellman, Philippe Carles, Brian Priestley, Mike Hennessey. In quell’ambito, di italiani mi viene in mente solo Alberto Rodriguez, che però purtroppo ha scritto di jazz solo sporadicamente.

Esiste il jazz italiano, inteso come stile riconoscibile?

Mi sembrerebbe un’affermazione spericolata. Non credo molto alle scuole su base geografica, anzi penso che quelle che conosciamo siano la conseguenza della comparsa di personalità eccezionali, diventate cime di piramidi: sotto di loro sono cresciuti gli emulatori, a varie altezze; senza di loro, non è che l’aria di New Orleans o di Chicago abbia qualcosa di speciale rispetto, poniamo, a Detroit o Boston. Le personalità eccezionali sono le scintille da cui nasce “un ambiente” favorevole, quello che poi si stratifica in una scuola o uno stile. Ricordo che alcuni protagonisti del West Coast Jazz non erano affatto californiani, probabilmente erano capitati lì proprio perché sapevano che avrebbero trovato colleghi interessanti. Negli anni Sessanta, a Londra, Ronnie Scott cambiò sede al suo celeberrimo locale, ma siccome aveva pagato l’affitto della vecchia sede per tutto l’anno, ne concesse l’uso a quella generazione di musicisti ¬– comprendente Kenny Wheeler, Tony Oxley, Dave Holland, Evan Parker, John Stevens, John McLaughlin, Paul Rutherford – che lì suonava sperimentando liberamente tutte le sere, senza altra preoccupazione che la musica. Una volta ho chiesto a Dave Holland se quella generazione avrebbe maturato una tale originalità e statura espressiva non avendo a disposizione in permanenza uno spazio libero. Mi rispose: «Probabilmente no». È chiaro che l’ambiente culturale e sociale esercita una qualche influenza, e che il multiculturalismo e multilinguismo di New Orleans creavano una situazione feconda per il jazz. Ma, pur collettivo nell’esecuzione, il jazz si regge sulla forza delle personalità individuali.

In molto lo individuano nella forza melodica.

Certo, esiste una tradizione melodica italiana che puoi rintracciare nello stile di Enrico Rava o Paolo Fresu, come ne esiste una nordica che riconosci in Jan Garbarek o Nils-Petter Molvær. E forse non è un caso che tre grandi di uno strumento vocato alla melodia come il clarinetto fossero di origini italiane: Tony Scott, Buddy DeFranco e Jimmy Giuffre. Uno stile italiano molto riconoscibile c’era semmai al tempo di Gorni Kramer e del Quartetto Cetra, oggi non saprei definirlo: ci sono in giro molti bravi jazzisti, e la loro somma fa il jazz italiano, in un’amplissima varietà di stili e orientamenti. Nonostante l’indifferenza delle istituzioni, al limite dell’ostilità, l’ambiente è piuttosto fecondo e aperto: due musicisti tanto diversi quanto Antonello Salis e Fabrizio Bosso suonano insieme, e si divertono molto a farlo, ma ognuno dei due ha un suo stile. La natura del jazz è nello scambio cosmopolita dei saperi e delle influenze.

Per quale motivo molte enciclopedie del jazz hanno ignorato per molti anni i musicisti italiani?

Non mi risulta che ci siano motivi intenzionali. L’informazione una volta non era così facile da reperire, e la maggior parte delle enciclopedie serie sono precedenti all’era della comunicazione globale. Sono poco citati anche i jazzisti sudafricani, quelli olandesi, polacchi, scandinavi, e di rado viene citato il fatto che Oscar Peterson, Gil Evans e Paul Bley sono canadesi. Il motivo probabilmente è nel fatto che la critica più autorevole si è sviluppata storicamente negli Stati Uniti, grande paese in cui però generalmente si è poco propensi a guardare fuori dai confini: perfino oggi, perfino nel jazz. I francesi ad esempio soffrono meno di sottoesposizione enciclopedica perché lì c’è una tradizione forte di pubblicistica jazz.

Sei stato per diversi anni direttore della rivista Musica Jazz. Come è cambiato il profilo dell’appassionato di jazz negli ultimi dieci anni?

Il problema forse è proprio che non è cambiato: è invecchiato, soprattutto quello che legge pubblicazioni specializzate. Probabilmente c’è anche un pubblico più giovane, ma pochi sono in grado di intercettarlo o definirlo perché comunica attraverso mezzi diversi dalla stampa, in un raggio compreso fra il tam-tam e Facebook.

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